Per tutti noi, la sofferenza e la morte sono il rimosso per eccellenza. Sempre il mito ci racconta che addirittura su un patto di rimozione della morte si fonderebbe la nascita stessa dell’uomo: proprio quel Prometeo a cui Chirone cede la propria immortalità per uscire dal paradosso in cui si trova confitto,nell’atto di plasmare gli uomini e fonda i presupposti esistenziali sull’oblio della morte. E per questa ragione, secondo Eschilo, prima ancora che per aver offerto loro il dono del fuoco e della tecnica, Prometeo viene punito dagli dei:
COR. Forse non sei andato troppo oltre?
PROM. Spensi all’uomo la vista della morte.
COR. Che farmaco trovasti a questo male?
PROM. Seminai la speranza che non vede.
(Eschilo, Prometeo incatenato, I episodio)
La dimenticanza della morte è un farmaco, una medicina alle sofferenze umane, ma non la medicina di cui può servirsi il medico Chirone.
“La speranza che non vede” somiglia piuttosto alla “follia” ironicamente “elogiata” da Erasmo da Rotterdam:
Supponiamo che potendo spaziare da una specola sublime con lo sguardo tutt'attorno - come, secondo i poeti, fa Giove - uno veda quante avversità minaccino la vita, quanto infelice e miserabile sia la nascita, quanto faticosa l'educazione, e tutte le offese cui va incontro la fanciullezza, tutti gli affanni della gioventù, e com'è pesante la vecchiaia, come amara la fatale morte; tutta la schiera delle malattie, dei vari accidenti, l'incalzare delle contrarietà: nulla mai che sia immune da un amaro veleno; per non dire di quei mali che l'uomo subisce dall'uomo, come la povertà, la prigionia, l'infamia, la vergogna, la tortura, le insidie, il tradimento, le ingiurie, i processi, le frodi. Ma dire tutto è come mettersi a contare i granelli di sabbia. […] Chi rifletta a tutto questo non sarà forse portato ad approvare l'esempio, pur così penoso, delle vergini di Mileto? E quali sono soprattutto gli uomini che, per disgusto della vita, si sono dati la morte? Non sono forse quelli che alla sapienza si erano accostati di più? Tralasciando Diogene, Senocrate, i Catoni, i Cassi, i Bruti, prendiamo il famoso Chirone che, potendo diventare immortale, preferì cercare spontaneamente la morte. Credo vi sia chiaro che cosa accadrebbe se la sapienza si diffondesse; sarebbe necessario altro fango e un secondo Prometeo capace di plasmare altri uomini.
La follia di Erasmo o la cieca speranza di Eschilo, almeno al grado inferiore e però più comune e quotidiano della nostra esperienza, è rappresentata dalla negazione della morte. A causa di ciò, la scelta consapevole di morire è per noi tabu, la rottura del patto prometeico che ci stringe alla vita nell’illusione dell’immortalità (cos’altro potrebbe essere il “non vedere”?), provocando il disagio intollerabile di porci di fronte a una realtà sulla quale non vogliamo-possiamo-dobbiamo fissare lo sguardo.
Forse è per questo che nelle letture astrologiche e psicologiche dell’archetipo si è spesso tentati di arrivare subito alla qualità resiliente del simbolo, distogliendo troppo velocemente l’attenzione dal prima. E stata la pratica delle costellazioni familiari astrologiche che, nella mia esperienza, ha reso impossibile questa semplificazione. Esse hanno di fatti il pregio di sottrarre al rischio di una interpretazione troppo soggettiva o codificata delle energie in gioco all’interno di un tema natale, spezzando la gergalità in cui rischia di cadere il linguaggio di ogni disciplina (il guaritore ferito, la ferita, il terapeuta interiore...) e lasciando spazio all’affioramento del simbolo, al suo espandersi in infinite eco.
Ho dovuto constatare che, fra le varie emergenze della simbologia chironiana, quella che ricorre più di frequente costellando un tema natale, specie quando Chirone si trova implicato in legami potenti con i luminari e con i pianeti personali, è l’evento del suicidio. Evento lacerante per una famiglia, il quale, anche se avvenuto in generazioni molto precedenti, proprio perché rimosso come ogni tabu dalla memoria familiare, diviene terribilmente persistente nella vita degli eredi, manifestandosi in varie gradazioni e tonalità, che vanno dall’attrazione verso la ripetizione del gesto a una forma di struggente malinconia, una sorta di seduzione dell’oltre come balsamo pacificante, unica vera possibile guarigione dell’anima. Molti studi recenti di psicologia clinica hanno del resto evidenziato come il dolore insopportabile che conduce al suicidio un membro della famiglia venga sovente “trasmesso” ai familiari e perfino agli amici, tanto che in alcuni casi gli stessi familiari divengono a rischio di suicidio se non sono prontamente sostenuti da programmi di assistenza adeguata . A questo proposito, la storia più sconvolgente nella quale mi sono imbattuta è quella di un giovane uomo, Sole in Pesci congiunto a Chirone, che quando era poco più che adolescente ha vissuto il suicidio del padre, avvenuto nel negozio di articoli per caccia di sua proprietà, e che anni dopo ha dovuto sopportare la scomparsa del fratello maggiore, il quale si è dato la morte nello stesso punto del medesimo negozio di famiglia.
Mi rendo conto che l’argomento è veramente ostico, e tuttavia credo di poter concordare pienamente con Liz Greene quando afferma che Chirone sia un archetipo essenziale “per approfondire e comprendere la consapevolezza solare; poiché, al fine di vivere la vita pienamente, bisogna confrontarsi con la parte di noi che sceglierebbe piuttosto la morte”. La parte di noi, appunto.
Un film recente, La pazza gioia di Paolo Virzì, mi sembra introdurre in modo commovente a questa rivelazione: mi riferisco al momento dell’opera in cui una delle due protagoniste, ambedue in fuga dalla casa di cura per malati psichiatrici in cui si sono incontrate, racconta all’amica di sventura, come lei altrettanto violentemente ferita nel corpo e nell’anima, il momento in cui si è gettata dal ponte insieme al suo bambino. Forse per l’innocenza naif del personaggio, la cui voce accompagna con parole semplici e toccanti un ricordo fino a quel momento impossibile da rievocare, certo per la mano felice della sceneggiatrice e del regista, si entra dentro all’esperienza del suicidio come necessità ‘chironiana’, esito inappellabile di un dolore che tocca il suo fondo e non si redime se non nella morte. Che diventa bella, dolce, quasi l’abbraccio di una madre. Quella madre che ha dimenticato e abbandonato in vita la protagonista, proprio come è successo al nostro centauro. Siamo chiamati lì insieme a lei e alla sua creatura, fin dentro le onde, sott’acqua, senza che ci sia data la possibilità di rifugiarci nel giudizio, o di distogliere lo sguardo di fronte alla presunta disumanità del gesto. Anzi, la scena evoca qualcosa di radicalmente umano, istintivo e basico perfino e così potentemente vero che nessun filtro culturale, nessuna possibile morale laica o religiosa, può offrirci il salvagente per chiamarci fuori e opporre la nostra estraneità.
Nel film, la giovane donna e il suo bambino vengono salvati e poi nuovamente separati. Si ha quasi la sensazione di vedere riaprisi la ferita, come a dire che quel movimento di fusione avvenuto nelle onde a richiamare simbolicamente il caos indistinto delle acque ancestrali, non si possa compiere, almeno non in quel modo. C’è una nuova peripezia, altre difficoltà, altro dolore da sopportare e cammino da affrontare per poter arrivare a una vita vivibile, a un incontro madre-figlio possibile perchè avvenuto nel limite che la realtà umana impone; un limite che, perfino per la relazione più intima che conosciamo, quella materna, decreta una distanza, ponendo lo spazio del possibile/necessario nel solco che si apre fra i due lembi della ferita. Che solo così, si direbbe, può iniziare a guarire.
Non sempre si ha la forza, o il sostegno di qualche divinità di passaggio, per ri-cucire i capi di questa necessaria condizione di separazione.
E nessuno può illudersi di comprendere davvero perché, di fronte al dolore più atroce, alcuni riescano a ricostruire e rilanciare la propria vita nel futuro, mentre altri si trovino sopraffatti dalla disperazione.
Certo, quando la ferita profonda riguarda la relazione primaria con la madre, la disperazione può essere un nemico più tenace da sconfiggere.
Mi ha colpito il fatto che Cesare Pavese, Luna in Acquario congiunta a Chirone in VI casa opposti a Giove in XII, in una delle sue ultime e meno comprese opere letterarie, I dialoghi con Leucò, dedichi un intero dialogo al centauro Chirone, dal titolo Le cavalle. Così come mi ha colpito al cuore verificare che al momento del suicidio il suo Chirone si trovava esattamente quadrato all’Ascendente e al Sole natale.[inserire qui i temi di nascita e di morte del poeta che si trovano nell’allegato]
Sembra che la madre dello scrittore fosse donna di salute cagionevole e di carattere freddo, che aveva affidato da subito il figlio prima ad una e poi a una seconda balia e anche quando lo aveva ripreso con sé a casa, aveva intrattenuto con lui un rapporto distaccato e glaciale, molto sofferto dal poeta. Il padre, Eugenio, muore quando Pavese ha poco più di cinque anni. C’è indubitabilmente qualcosa del mito di Chirone in questa biografia infantile: al pari di Chirone, Cesare perde irrimediabilmente l’infanzia e, come accade nel migliore dei casi, diviene precocemente vecchio, solo e sapiente, costretto a un rovesciamento dei tempi evolutivi che rigetta l’infanzia nell’ombra, da cui essa emette tuttavia i suoi vagiti. Nel caso del poeta, nella forma del vagheggiamento di un amore assoluto, di un incontro totale con la donna che possa finalmente e definitivamente sanare la ferita originaria. Qualcosa che continuerà a inseguire fino a pochi momenti prima di darsi la morte, senza mai raggiungerlo.
Proprio sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, l’opera che egli considerava il proprio testamento letterario ed esistenziale, scriverà le famose righe che precedono l’atto estremo: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
E’ stato osservato come la visione mitologica e la filosofia di vita che emerge dai Dialoghi, si fondi sulla frattura fra un prima e un dopo della mitologia: il caos primordiale, rappresentato nel dialogo di Chirone con l’immagine potentissima della “palude di sangue”, un’“oscurità inconsapevole” in cui “si intrecciavano, in una natura indistinta, l’elemento umano, il divino e il bestiale”, e la successiva “età degli dèi olimpici” , quando uomini e dei sono stati separati e si è imposta la necessità della distinzione, la temporalità e la morte. Anche qui, la “palude di sangue” rinvia all’indistinto delle acque originali, una sorta di placenta collettiva e ancestrale vagheggiata come il luogo della non divisione, dell’assenza di ferita.
Nelle Cavalle, Chirone, che è anche l’alter ego del poeta, è invece una figura malinconica proprio in quanto emblema della scissione fra questi due tempi, fra la realtà caotica e oscura del divino primordiale e quella nuova gerachia che si è imposta fra divinità olimpiche, uomo, e al grado inferiore e degradato, bestia. Una separazione che in altri termini potremmo definire fra Spirito, Mente e Carne.
Figlio di Crono, colui che incide la ferita iniziale, separando il tempo mitico da quello lineare, Chirone serba in sé e rimpiange la memoria di quella compiutezza originaria nell’indistinto che non gli è più possibile raggiungere. Nel testo di Pavese egli dialoga con Ermete “ctonio”, la figura di Ermes più compromessa con la terra e gli Inferi, il quale viene ad affidare alle sue cure, su istanza di Apollo, il neonato Asclepio, strappato “dalle fiamme e dal grembo” della morente Coronide dalle “mani immortali” del Dio .
Apostrofando Asclepio, Chirone descrive in realtà il proprio destino:
Chirone – Bimbetto, era meglio se restavi nel fuoco. Tu non hai nulla di tua madre se non la triste forma umana. Tu sei figliolo di una luce abbacinante ma crudele, e dovrai vivere in un mondo di ombra esangue e angosciosa, di carne corrotta, di sospiri e di febbri – tutto ti viene dal Radioso. La stessa luce che ti ha fatto frugherà il mondo, implacabile, e dappertutto ti mostrerà la tristezza, la piaga, la viltà delle cose. Su di te veglieranno i serpenti.
Ora che la frattura fra il sopra e il sotto si è consumata, mantenere traccia in sé dell’immortalità del padre, ereditarne la radiosità nella forma della sapienza, delle arti e del potere taumaturgico, è di fatto la peggiore delle condanne. Chirone e Asclepio non sono uomini tanto da poter godere del dono prometeico della “speranza che non vede” e anzi sono piuttosto forzati dalla luce suprema e “crudele” che li ha generati a indirizzare lo sguardo dritto verso la sofferenza e la morte:
Chirone – Un tempo, anche noi si galoppava fin lassù [nell’Olimpo] di costa in costa.
Ermete - Ebbene, dovreste tornarci.
Chirone – Amico, Corònide c’è tornata.
Ermete - Che vuoi dire con questo?
Chirone -. Voglio dire che quella è la morte. Là ci sono i padroni. Non più padroni come Crono il vecchio, o l’antico suo padre o noi stessi nei giorni che ci accadeva di pensarci e la nostra allegria non sapeva più confini e balzavamo come cose che eravamo. A quel tempo la bestia e il pantano eran terra d’incontro di uomini e dei. La montagna il cavallo la pianta la nube il torrente – tutto eravamo sotto il sole. Chi poteva morire a quel tempo? Che cos’era bestiale se la bestia era in noi come il dio?
Nell’orizzonte della separazione, la morte, fa dire il poeta al centauro, è il nostro unico Olimpo. Gli dei non sono più padri ma padroni e la divaricazione fra alto (lassù) e basso ha relegato la bestia nell’ombra.
Chirone, figlio di un dio, per metà uomo e per metà cavallo, incarna nel corpo la compresenza, nella separazione, di questi tre piani. E’ una sorta di ossimoro permanente: immortale-mortale, guaritore-ferito inguaribilmente, dio-bestia, luce-ombra, egli esprime la frammentarietà irricomponibile se non in rari attimi della nostra vita, che è, credo, la vera ferita di cui andiamo parlando.
E certamente, chi entra nella vita con questa segnatura, più di altri si trova al centro di un tale paradosso ed è chiamato a trovare una difficile via di sintesi fra Spirito, Mente e Corpo.
2. Terapia
Nel brevissimo prologo alle Cavalle, Pavese scrive: “Cosa significhi che il buon medico Asclepio esca da un mondo di divine metamorfosi bestiali, vale la pena di dirlo”. Il potere di guarigione di Asclepio come quello del suo maestro Chirone derivano, sembra indicare Pavese, propio dal contenere in sé tracce della bestia e del divino, o per meglio dire di una condizione primaria di divina bestialità, che dirige la luce del loro sguardo sul corpo, sottraendo quest’ultimo all’ombra in cui è stato confinato.
C’è uno studio, come al solito documentatissimo, di Karol Kerényi, intitolato Il medico divino, in cui il grande studioso del mito si sofferma sulla figura di Asclepio, in un viaggio che passa in rassegna a ritroso i luoghi di culto del dio della guarigione, dal più tardo tempio di Esculapio a Roma fino ad arrivare alle origini della mitografia in Tessaglia, dove la figura di Asclepio si connette strettamente a quella del suo maestro Chirone. Il santuario è qui posto sul monte Pelio, dove, nella zona Nord, si trovava la grotta di Chirone al cui interno era la porta degli Inferi, mentre “nella parte meridionale, verso il lato soleggiato, che guardava per così dire il lato giorno del mondo, c’era il tempio di Zeus” . Il trait-d’union che Kerényi individua in tutti questi luoghi sacri è una forte componente ctonia, inscindibilmente connessa alla luminosità del sacro, ponendo in risalto “quella sfera oscura e comunque spirituale dalla quale, secondo la mitologia greca, ha origine l’arte medica”. Qualcosa che ricorda da vicino le “divine metamorfosi bestiali” di cui parla Pavese a proposito di Asclepio.
L’arte medica nasce, secondo il mito così come Kerényi lo ricostruisce, da una contraddizione, da un incontro di infero e supero, solare e oscuro, che il paradosso di Chirone, dio ferito in modo incurabile, esprime al suo massimo grado. Come sottolinea Kerenyi, il potere terapeutico di Chirone è tutto dentro quel paradosso, non essendo “altro che la conoscenza di una ferita per la quale il guaritore soffre in eterno” . Egli è in fondo una figura cristica e come ogni dio incarnato, conosce le ferite dell’uomo prima perchè da esse non può distogliere lo sguardo e poi perché sarà costretto a viverle nella sua stessa carne, proprio in quel punto in cui il corpo è più corpo: l’arto inferiore, la parte bestiale di lui, il ginocchio, il piede, o come alcuni vogliono, il tallone.
Scrive infatti Robert Graves ne La Dea Bianca:
In che punto preciso del tallone o del piede furono feriti a morte Talo, Bran, Achille, Mopso, Chirone [Krishna, aggiungo io] e gli altri? La chiave della risposta ce la danno i miti di Achille e Llew Llaw. Quando Teti sollevò Achille bambino per il piede e lo tuffò nel calderone dell’immortalità, la parte coperta dalle sue dita rimase asciutta e pertanto vulnerabile
Possiamo ancora una volta fare riferimento a quella grande studiosa della simbologia del corpo che è Annick de Souzenelle, la quale indica nella ferita del piede la vulnerabilità radicale dell’uomo ferito appunto alla base del proprio albero, alla radice dell’essere. Da questa radice, da cui la linfa può disperdersi, dobbiamo necessariamente partire per ricostruire il tessuto, ricucire i lembi, ovvero edificare la nostra vita poiché il il patto adamitico si fonda sulla ferita, come testimonia ogni cosmogonia.
Chirone è in questo senso figura della nostra innata vulnerabilità, di una tensione di ricongiungimento al divino (la guarigione) che non può che svolgersi a partire dall’estremità ultima del nostro essere animale, dal fondo della grotta che egli abita, porta degli Inferi e inscindibilmente tempio di Zeus. Senza attraversare l’ “oscurità inconsapevole” della bestia, per riprendere le parole di Pavese, non possiamo accedere “al lato soleggiato”, al “lato giorno del mondo”.
Questo vale tanto per il guaritore che è in ognuno di noi, quanto per ogni possibile rapporto terapeutico. Se il terapeuta dimentica di essere ferito a sua volta e si identifica con un potere taumaturgico che non gli appartiene, in quanto divino, semina intorno a sé i germi di una malattia dell’anima pericolosa quanto contagiosa (si pensi a certi presunti ‘guaritori’, o anche solo a uno psicoterapeuta che si avvolga di un’aura troppo luminosa di compiutezza a cui tendere come a un modello); oppure, all’opposto, se non riesce a farsi veicolo di una dimensione ulteriore, identificandosi con la ferita stessa e non potendo contemplare altro orizzonte da quello della caverna (come avviene a certa medicina, o psicologia moderna che reificano l’anima riducendola a un catalogo di sintomi), condanna se stesso e chi a lui si rivolge alla fissazione nella patologia. Due tipi differenti di dipendenza, a guardar bene, mentre il vero guaritore non può che accompagnare se stesso e l’altro in un cammino di ri-unione, ovvero di liberazione.
Cito a conclusione questa sorprendente sottolineatura di Kerényi: “Chirone, il dio oscuro, sarebbe perfino stato in grado di restituire la vista” .
Mi sono sempre chiesta perché Zeus ponga Chirone nella costellazione del Sagittario, poiché, certo per mia insipienza, non sono mai riuscita a trovare una evidente affinità energetica fra questi due sistemi simbolici. Mi chiedo ora se non sia per fondare una speranza di riunione fra sopra e sotto che si affidi al vedere anziché al non vedere, la morte, come la vita.